Epicuro visse tra il 341 e il 270 a.C. circa e viene considerato uno dei maggiori esponenti della filosofia ellenistica.
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Fu scrittore fecondissimo: Diogene Laerzio gli attribuisce circa 80 titoli. Purtroppo molto è andato perduto, anche se siamo in grado di ricostruire i punti fondamentali del suo pensiero grazie soprattutto a ciò che ci ha tramandato Laerzio nelle Vite dei filosofi. Ciò che ci è rimasto sono tre epistole:
- A Erodoto (sulla fisica),
- A Pitocle (sui fenomeni celesti),
- A Meneceo (sull’etica)
Cui va aggiunta una raccolta di Massime capitali.
Epicuro arriva ad Atene alla fine del IV secolo: essendo un meteco non può costruire in città e così acquista in campagna una casa con un terreno, dove tiene le sue lezioni. A causa di questo la sua scuola è chiamata il «giardino» di Epicuro. Il fatto che non insegni in città dimostra che si rifiuta di insegnare alle masse: preferisce insegnare solo a pochi alla volta, un piccolo numero di amici.
Il programma filosofico di Epicuro
La filosofia è, per Epicuro, una «medicina dell’anima»: è un fare, un’attività che mira al conseguimento di una condizione di benessere.
Le sue prescrizioni sono condensate nelle quattro semplici proposizioni note come il «quadrifarmaco» («le quattro medicine»):
• gli dei non sono da temere;
• la morte non è cosa di cui aver paura;
• il bene è facile a procurarsi;
• il male è facile da sopportare
La necessità di una terapia sorge dal fatto che gli uomini conducono per lo più un’esistenza infelice: più gravi delle malattie che aggrediscono il corpo sono le paure, i turbamenti, le false opinioni che gravano sull’anima.
L’uomo comune, abituato a valori che gli sono stati consegnati dalla società, teme esageratamente ciò che in realtà non può arrecare un vero danno, e d’altro canto si consuma inutilmente nel desiderio di ciò che non può o non vale la pena di ottenere.
L’uomo quindi va liberato da queste forme di schiavitù prima di tutto psicologica: è questo il vero, unico compito della filosofia, che gli deve indicare con chiarezza ciò che deve desiderare.
Questo è il senso del conoscere:
«se non ci turbasse la paura dei fenomeni celesti e quella della morte e il non conoscere il confine dei piaceri e dei dolori – afferma Epicuro – non avremmo bisogno della scienza della natura» (Massime capitali, XI).
Si può così comprendere il senso della violenta polemica «anticulturale» di Epicuro: quando egli esorta i suoi discepoli a «fuggire la cultura», intende riferirsi sia al sapere dei retori sia al sapere scientifico-matematico che non offrono una autentica soluzione al problema principale della vita: la ricerca dell’eudaimonia.
Per realizzare il suo programma la filosofia di Epicuro deve soddisfare due esigenze quasi opposte:
- da un lato, deve ricondurre tutti i fenomeni all’interno del campo di esperienza dell’individuo. Il senso di questa operazione è quello di eliminare ogni elemento di trascendenza e di finalismo che, alludendo a un livello di realtà esterno e superiore all’uomo, ne limiti la capacita di perseguire liberamente il proprio fine (il confronto polemico sarà qui, in primo luogo, con Platone);
- dall’altro deve anche evitare, al tempo stesso, il rischio di cadere nel relativismo e nello scetticismo, cioè di posizioni che escludono la possibilità di un riferimento oggettivo sia in campo gnoseologico (verità) che in campo morale (bene).
La tensione tra queste due esigenze anima, con tutte le sue difficoltà, la dottrina epicurea.
L’etica
Data l’impostazione pratica e operativa del suo pensiero, è ovvio che il suo «cuore pulsante» sia l’etica: la fisica e la gnoseologia rappresentano solo le premesse, o meglio lo studio delle condizioni alle quali è possibile l’etica.
Ne deriva immediatamente un carattere tipico dell’insegnamento di Epicuro: più che svilupparsi in complessi ragionamenti, esso tende a focalizzarsi sui punti chiave, riassumendoli in proposizioni semplici e facili da ricordare.
Il compito del discepolo infatti non è cercare nuove verità, ma assimilare quelle di Epicuro e, così facendo, trasformare la propria vita.
Da qui anche la scelta di usare l’artificio letterario della epistola, che è breve, familiare, accattivante, facile da ricordare.
Tra tutte le opere di Epicuro, l’unica dedicata all’etica che ci sia giunta è l’Epistola a Meneceo, che si sviluppa secondo le tesi del quadrifarmaco.
Gli dei non sono da temere
Epicuro non nega l’esistenza degli dei: al contrario, quest’ultima è per lui un fatto addirittura evidente, dato che non si può avere una idea di qualcosa di cui non si sia fatta esperienza.
Epicuro concepisce gli dei come composti di atomi, quindi corporei anch’essi, ma dotati della capacità di «rigenerarsi», quindi immortali. Perfettamente beati e imperturbabili, gli dei abitano gli spazi vuoti fra mondo e mondo, i cosiddetti intermundia, e non hanno nessuna possibilità di intervenire nei confronti dell’uomo: quindi non premiano né puniscono. L’opinione contraria, diffusa presso tutti i popoli, è solo una falsa superstizione.
La morte non è da temere
Il secondo precetto del quadrifarmaco è sicuramente il più controverso, perché attacca direttamente il più radicato timore dell’uomo. Che però, sostiene Epicuro, è del tutto ingiustificato:
- morte e vita sono due termini tra loro totalmente contraddittori tra loro da un punto di vista logico,
- e quindi quando c’è l’uno non ci può essere l’altro.
Chi è morto, dato non può percepire nulla, non può neanche rendersi conto di essere morto, e tanto meno può soffrire per questa condizione. Di conseguenza è stolto preoccuparsi per qualcosa che, quando verrà, non modificherà in nulla le nostre percezioni.
Questo secondo «farmacon» è direttamente legato alla concezione epicurea dell’anima. Per Epicuro l’anima è un corpo e come tutti i corpi, è costituita di atomi, sia pure particolarmente sottili e mobili: l’individuo è dunque un composto di anima e di «carne» (il corpo propriamente detto). Le funzioni della vita psichica (sensazioni, affezioni, pensiero) sono determinate dal movimento degli atomi dell’anima. La conseguenza di questa impostazione è che l’anima è mortale. Proprio per questo essa non ha la possibilità di percepire alcunché dopo la «morte».
La discussione epicurea sulla morte si basa in ultima analisi sulla concezione logica rigidamente dualistica di Parmenide, che Epicuro riceve attraverso l’atomismo di Democrito e Leucippo. Per l’Eleate, essere e non essere sono due concetti contraddittori tali per cui non è possibile alcuno scambio né alcuna relazione tra essi. Vita e morte sono concepiti da Epicuro nello stesso modo: se c’è la vita, la morte è totalmente assente, ma quando arriva la morte, è la vita a essere completamente mancante.
Il bene è facile da procurarsi
Con questo, è impostata la parte «negativa» dell’etica di Epicuro, che mira alla liberazione dalla superstizione e dall’angoscia. Si deve considerare ora la parte «positiva»: ciò che bisogna volere e fare per essere felici.
Su questo punto l’affermazione più celebre di Epicuro è stata fonte di infiniti fraintendimenti. Essa infatti suona così: la felicità, che è l’obiettivo di ogni uomo, è il piacere fisico.
Già durante la sua vita Epicuro si deve difendere da coloro che intendono questa frase nel senso che il saggio deve dedicare la sua vita ai godimenti fisici, in particolare il cibo e il sesso.
Il senso del messaggio di Epicuro è esattamente l’opposto. Che cosa è infatti il piacere? La risposta di Epicuro è nettissima: è solo l’assenza del dolore (generato dal bisogno).
Si tratta di una definizione negativa, in cui non viene detto cosa è propriamente il piacere, ma solo cosa non è.
Questa definizione, attivata dalla logica dualistica di origine eleatica, permette a Epicuro la mossa successiva: il piacere viene raggiunto per il solo fatto che viene tolto il dolore, annullando il bisogno che aveva generato la sofferenza.
Se esiste solo la coppia piacere-dolore, quando io rimuovo il dolore (la sofferenza generata dal bisogno) sono automaticamente nel piacere. Non solo, ma sono nel piacere al maggior grado possibile, e sono simile a un dio.
Una immagine che non è di Epicuro ma può servire a raffigurare questo ragionamento è quella del secchiello riempito di sabbia. Quando viene raggiunto il colmo è inutile continuare ad aggiungere sabbia, che nel migliore dei casi è instabile e può cadere da un momento all’altro: il secchiello non diventa «più pieno».
Il piacere si comporta in questo modo perché ha un limite, che è rappresentato dalla natura: superare i limiti che questa impone non aiuta minimamente a essere felici. L’idea di limite, che solo il logos riesce a cogliere nella natura, è perfettamente in linea con tutte le linee guida della cultura greca.
Da qui nasce la triplice distinzione dei piaceri, tipica di Epicuro.
Prima di tutto dobbiamo infatti distinguere i piaceri non naturali da quelli naturali.
I piaceri non naturali nascono dal nostro rapporto con la società e non hanno nessun limite interno che ci permetta di dire: «Sì, ho raggiunto il mio obiettivo, dunque sono felice!». La ricchezza o la gloria, per esempio, non hanno un tetto massimo oltre al quale non si possa andare: per quanto grande la quantità di denaro che ho accumulato sarà sempre possibile averne di più, e quindi io non sarò mai soddisfatto.
Ma anche i piaceri naturali (bere, mangiare e riposarsi) possono essere considerati sotto un profilo qualitativo, cercando una variazione infinita nel gusto che mi impedirà di arrivare al punto di dire: più oltre non è possibile andare. Sono quelli che Epicuro chiama «piaceri naturali non necessari»
Solo se considero i piaceri naturali in sé, allora li posso pienamente soddisfare: se ho fame, io riesco a placarla anche con un pezzo di pane secco, e se io mi concentro solo sul semplice fatto di aver fame devo riconoscere che il pezzo di pane secco mi dà altrettanto piacere (=rimuove altrettanto dolore) di un pranzo sontuoso. È questo che permette a Epicuro di affermare al termine della Epistola a Meneceo che chi segue i suoi precetti vivrà come un dio tra gli uomini: come un dio, infatti, non avrà bisogno di (quasi) nulla, perché quasi nulla ci chiede la natura.
La natura mostra così che il piacere non è qualcosa che si aggiunga all’esistenza «da fuori», qualcosa che vada inseguito per mezzo della vita: il piacere è la vita, è l’esistenza stessa quando si sia riusciti a liberarla dal turbamento e dal dolore. Il piacere non è dunque altro che liberazione dal dolore: assenza di dolore fisico (aponia) e di turbamento spirituale (atarassia).
L’infelicità nasce da una distorsione della prospettiva con cui si guardano le cose: è un difetto intellettuale. Per questo la filosofia, che è attività intellettuale, può liberare l’uomo nella sfera dei suoi comportamenti pratici e indicargli che è possibile un calcolo, una valutazione razionale, del piacere e del dolore, sul quale fondare le proprie scelte di vita.
Il dolore è facile da sopportare
L’ultimo «farmacon» è per forza di cosa problematico. La sofferenza può essere di due tipi, sostiene Epicuro:
- o è debole
- o è intensa
Se è debole, è facile sopportarla (si pensi alle persone che si abituano a un mal di schiena ricorrente): se è intensa, dura poco e a limite conduce rapidamente alla morte, cioè all’annullamento della capacità di soffrire.
Secondo la tradizione Epicuro stesso ha dato una prova di coerenza con la propria dottrina morendo per un attacco di calcoli ai reni dopo tre giorni di intense sofferenze affrontate con grande serenità. Tuttavia resta molto difficile accettare la possibilità di applicare concretamente questo precetto da parte delle persone normali.
Virtù è felicità
Aretè (ciò che rende uomo l’uomo) e felicità (ossia il piacere, ovvero la capacità di vivere senza sofferenza) per Epicuro coincidono. Nell’affermare ciò il filosofo opera una sottolineatura particolare: non è possibile essere felici se non si è giusti ma, di converso, non si può essere giusti senza essere felici. Il bene non è, al modo platonico, un ideale trascendente: il bene è nella vita stessa. Ciascuno può averne una percezione immediata ed evidente: ogni individuo, infatti, distingue con chiarezza nell’affezione (pathos), ciò che per lui è bene, il piacere, e ciò che è male, il dolore. Dunque virtù, bene, felicità coincidono con il piacere: o, in altri termini, il piacere è criterio di distinzione fra bene e male. Epicuro formula cosi un’etica che si suole chiamare edonistica (da hedone, piacere).
Anche se si manifesta nell’esperienza soggettiva dell’individuo, il criterio del piacere non è arbitrario: esso fornisce una norma oggettiva, perché il piacere stesso è connaturato all’uomo.
Si tratta dunque di riportarsi alla natura, alla physis, sgombrando il campo da falsi timori e pregiudizi.
La fisica di Epicuro
Per Epicuro tutto è costituito da atomi, che sono particelle di materia con tanti ganci, che servono per unirsi tra loro per formare l’esistente.
Gli atomi cadono dall’alto verso il basso (queste direzioni vanno considerate in senso «assoluto») fino a quando a un certo punto subiscono un «clinamen» (deviazione) e, scontrandosi tra loro, cominciano ad aggregarsi. Col passare del tempo, gli aggregati formano i vari mondi, separati dagli «intermundia» di cui abbiamo già parlato. Non è del tutto chiaro se a subire un clinamen sia per Epicuro un solo atomo o più. Quello che è chiarissimo è che poiché gli atomi sono infiniti, anche i mondi sono infiniti.
Questa tesi porta a un’evidente conseguenza: l’infinità dei mondi implica che ogni potenzialità dell’essere esiste attualmente (ossia non è una potenzialità), qualsiasi cosa che avvenga nel proprio mondo esiste già in un altro, e quindi non porta a un incremento reale dell’essere (e quindi non viola Parmenide), quindi non c’è niente che da essere va nel nulla.
Il clinamen tuttavia resta fortemente problematico: da lato è necessario alla dottrina (altrimenti non sarebbe possibile la formazione dei mondi) ma dall’altro rappresenta la apparizione di qualcosa dal nulla, ciò che è vietato dall’adesione di Epicuro alle posizioni parmenidee. La scienza (lo studio della natura) per Epicuro serve solamente a togliere il turbamento dell’animo, non a conoscere la verità delle cose. La sua scienza ha uno scopo etico: se io conosco la causa di un fenomeno non lo temo.
La cosa importante è dunque che la spiegazione di un fenomeno tolga il turbamento dell’animo, non che sia vera: da qui la tesi delle ipotesi plurime o della pluralità delle ipotesi.
Strumenti per l’analisi del testo
Di seguito vengono riportati alcuni strumenti per lo studio del testo su Epicuro. Il primo livello è quello lessicale: vengono riportate alcune parole che potrebbero essere difficili e che comunque vanno conosciute con precisione. Nel lavoro sul quaderno riporta con cura le definizioni che non conosci come note a piè di pagina.
Livello lessicale
Spiegazione delle parole difficili (italiano corrente):
- Fecondissimo: Estremamente prolifico, in riferimento alla produzione di molte opere scritte.
- Tramandato: Trasferito o trasmesso da una generazione all’altra.
- Meteco: Straniero residente in una città greca, con diritti limitati rispetto ai cittadini.
- Proposizioni: Frasi che esprimono un giudizio o una verità.
- Quadrifarmaco: Le quattro medicine, le quattro semplici proposizioni di Epicuro per il benessere.
- Tesi: Affermazione o teoria sostenuta con argomenti e prove.
- Superstizione: Credenza irrazionale in influenze soprannaturali che condizionano la vita umana.
- Patologia: Studio delle malattie e delle loro cause.
- Affezione: Stato emotivo o fisico, sentimento.
- Apparizione: Manifestazione o comparsa di qualcosa.
- Potenzialità: Capacità di svilupparsi o diventare qualcosa.
- Aggregarsi: Unirsi, combinarsi insieme per formare un tutto.
Spiegazione delle parole difficili (microlingua della filosofia):
- Ellenistica: Periodo della storia greca che va dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) alla conquista romana dell’Egitto (30 a.C.), caratterizzato dalla diffusione della cultura greca nei territori conquistati.
- Gnoseologia: Disciplina filosofica che studia la natura, l’origine e i limiti della conoscenza.
- Aponia: Assenza di dolore fisico, considerata uno stato di piacere per Epicuro.
- Atarassia: Imperturbabilità dell’animo, uno stato di tranquillità e serenità assoluta.
- Clinamen: Deviazione spontanea degli atomi che, secondo Epicuro, permette la formazione degli aggregati materiali.
- Eudaimonia: Felicità, benessere, o il vivere bene, considerato il fine ultimo della vita secondo molte filosofie antiche.
- Trascendenza: Condizione di ciò che sta al di là dell’esperienza umana e della realtà sensibile.
- Finalismo: Dottrina secondo cui tutti i fenomeni hanno un fine o scopo preordinato.
- Relativismo: Teoria secondo cui non esistono verità assolute, ma solo verità relative a diversi punti di vista o contesti.
- Scetticismo: Atteggiamento di dubbio sistematico riguardo alla possibilità di ottenere conoscenze certe.
- Dualistica: Ogni dottrina filosofica che afferma l’esistenza di due principi fondamentali e opposti, come il bene e il male, o l’anima e il corpo.
- Aretè: Virtù o eccellenza, ciò che rende uomo l’uomo, secondo la filosofia greca.
- Edonistica: Relativa all’edonismo, dottrina filosofica che identifica il bene con il piacere e il male con il dolore.
- Physis: Termine greco che indica la natura o l’essenza delle cose.
- Logos: Termine greco che indica il principio razionale dell’universo, la parola, il discorso o la ragione.